ANTHROPOCENE – Siamo (dis)umani ?

Il 28 settembre 2018 la Galleria d’Arte dell’Ontario di Toronto e la Galleria Nazionale del Canada di Ottawa presentarono in contemporanea la mostra multimediale dal titolo “Anthropocene”.

Il fotografo Edward Burtynsky e i registi Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier hanno lavorato insieme per quattro anni, viaggiando in lungo e in largo per il mondo ad esclusione dell’Antartide, per testimoniare l’effetto delle attività umane sul nostro pianeta.

Perché parlare di Anthropocene ?

Dal 2009 un gruppo internazionale di scienziati conosciuto come Anthropocene Working Group (AWG), incaricato dalla Sottocommissione di Stratigrafia Quaternaria dell’Unione Internazionale di Scienze Geologiche (IUGS), sta raccogliendo prove a sostegno del passaggio dall’epoca geologica dell’Olocene (iniziata circa 11700 anni fa) a quella proposta come Antropocene.

La parola Anthropocene definisce l’epoca geologica nella quale viviamo, ma non tanto da un punto di vista sistematico quanto dall’effetto delle azioni dell’Homo “sapiens” sul pianeta Terra. Questa relazione di causa ed effetto affonda le sue radici nelle ottocentesche osservazioni pioneristiche del geologo e paleontologo italiano Narciso Carl’Antonio Stoppani (1824-1891), che propose il termine era antropozoica per indicare l’impatto delle attività umane sulla natura. Il termine Anthropocene fu coniato negli anni ’80 dal biologo americano Eugene Filmore Stoermer (1934-2012) e adottato dal chimico e Premio Nobel[1] olandese Paul Josef Crutzen (1933- ).

Cambiare si può ! Nel 2016 la capacità complessiva di generare energia da fonti rinnovabili ha registrato un incremento annuale di circa 161 GW di potenza aggiunta.

Interessante è notare che l’Anthropocene, pur non essendo a oggi riconosciuta come epoca ufficiale della scala dei tempi geologici da parte dell’IUGS, vede nella data del suo inizio proposta dall’AWG un largo consenso. Questo momento ricade a metà del XX secolo, all’inizio della “Grande Accelerazione” verso la globalizzazione. Questo periodo del “secolo breve” vede, oltre al rapido sviluppo industriale, il rilascio di elementi radioattivi nell’atmosfera a causa dei test nucleari.

La nostra specie ha sempre plasmato il mondo circostante ma mai in maniera così intensiva e con la velocità mostrate nel periodo delle rivoluzioni industriali, dal 1770 al 1970 circa. Le concentrazioni di CO2 nell’atmosfera sono aumentate di circa 120 parti per milione (ppm) dal 1850, incluso un incremento intorno a 2 ppm all’anno negli ultimi 50 anni. Invenzioni come la macchina a vapore, la lampadina e le plastiche, i progressi tecnologici e medici, l’utilizzo dei combustibili fossili come fonti energetiche e la nascita delle telecomunicazioni hanno portato a una crescita socio-economica alla quale si è associata quella demografica come mai prima nella storia dell’uomo. Dopo un lungo periodo di crescita graduale che ha portato al primo miliardo di esseri umani all’inizio del XIX secolo e al secondo miliardo con l’ingresso nel Novecento, la popolazione del nostro pianeta è più che raddoppiata negli ultimi 50 anni. Oggi sulla Terra si contano circa 7,6 miliardi di persone, con l’ultimo miliardo raggiunto in un arco di tempo di soli dodici anni. Secondo un rapporto del 2017 dell’ONU, la popolazione mondiale dovrebbe raggiungere 8.6 miliardi nel 2030 e i 9.8 miliardi nel 2050. Alla fine del secolo la soglia di 11 miliardi di esseri umani potrebbe essere già stata superata.

Tutto però ha un prezzo… benvenuti nell’Anthropocene. Questa è l’epoca in cui l’industrializzazione, l’agricoltura intensiva, la deforestazione, il sovraffollamento, la carenza di acqua, le epidemie e i cambiamenti climatici decideranno il destino dell’umanità.

Possiamo ancora considerarci “umani” ?

Passeggiando lungo le sale della mostra e perdendomi tra le scioccanti immagini che mi circondano, sento risuonare nella mia mente le parole dell’antropologa inglese Valerie Jane Morris-Goodall (1934- ): << Here we are. The most clever species ever to have lived. So how is it we can destroy the only planet we have ? >>.[1]

Alcuni dati per riflettere:

  • La produzione complessiva di plastiche è passata da meno di 2 milioni di tonnellate all’anno nel 1950, ai circa 300 milioni all’inizio del XXI secolo. Si stima che intorno al 2050 nei mari ci saranno, in termini di peso, più rifiuti di plastica che pesci.
  • Il report 2016 del World Wildlife Fund (WWF) mostra che il 50% di tutte le specie animali monitorate evidenzia un calo significativo delle loro popolazioni dal 1970. Questa tendenza è ancora più netta nelle specie di acqua dolce.
  • La deforestazione, soprattutto in Amazonia e nell’Africa centrale, ha portato alla perdita di un decimo delle aree selvagge del pianeta e il tutto in solo due decadi. Ogni anno scompaiono circa 18.7 milioni di acri (1 acro = 4046.85642 m2) di foresta, pari a 27 campi da calcio.

La nostra specie sembra aver imboccato una sorta di via preferenziale per l’autodistruzione. Possiamo ancora invertire questa marcia funebre ? Nel 2016 la capacità complessiva di generare energia da fonti rinnovabili ha registrato un incremento annuale di circa 161 GW (1 Gigawatt = 1 miliardo di Watt). Una quota pari al 47% è attribuita all’energia solare, un 34% all’energia eolica e un 15.5% all’energia idroelettrica. La ricerca tecnologica sta portando alla ribalta strategie ecocompatibili come la Centrale Solare PS10 di Siviglia, Spagna (vedi immagine). Questa centrale elettrica utilizza energia solare per produrre elettricità. Gli specchi eliostatici, sono in grado di muoversi durante il giorno per riflettere la maggior quantità possibile di energia solare. Quando i raggi colpiscono le torri, il calore immagazzinato produce vapore, il quale va ad alimentare una turbina, che a sua volta mette in moto un generatore di elettricità.

La mostra “Anthropocene” e il documentario “Anthropocene: The human epoch” saranno visibili, gratuitamente, alla Fondazione MAST di Bologna dal 16/05 al 6/10. Per ulteriori informazioni è possibile visitare il sito web della Fondazione “mast.org” e quello del progetto “theanthropocene.org”.

Non siamo ancora al punto di non ritorno ma ognuno dovrà fare la sua parte, dai singoli cittadini ai governi di tutto il mondo, perché il tempo è ormai agli sgoccioli. La speranza è riuscire a vincere questa sfida perché anche le future generazioni possano godere di questo meraviglioso pianeta, la Terra.


[1] Premio Nobel per la Chimica 1995 per le ricerche riguardanti la formazione e decomposizione dell’ozono nell’atmosfera. Furono insigniti del premio anche il messicano Mario José Molina-Pasquel Henríquez (1943- ) e l’americano Frank Sherwood Rowland (1927-2012). [2] << Eccoci qui, la più intelligente specie che sia mai vissuta. Quindi, come possiamo distruggere l’unico pianeta che abbiamo ? >>.

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