
Ci sono momenti in cui il mondo si ferma.
In cui i popoli, le nazioni, i potenti, i deboli, i credenti, i non credenti, guardano tutti nella stessa direzione.
Non per una vittoria, non per una guerra, non per un evento mondano. Ma per una cosa sola: il conclave.
Perché quando si chiude la Cappella Sistina, quando il “Extra Omnes” risuona tra quelle mura dipinte da Michelangelo, quando le porte si sbarrano e i cardinali restano soli sotto l’affresco del Giudizio Universale, il mondo intero guarda a Roma.

Vuoi o non vuoi. Ci credi o non ci credi. Ti interessa o ti infastidisce. Non importa: il centro si sposta lì. Perché lì, dentro quelle mura, si compie un rito millenario, unico al mondo, irripetibile.
Un rito che unisce il potere spirituale, la storia, la cultura, la fede, il destino.
Un rito che parla alle radici profonde dell’Occidente. Quelle radici giudaico-cristiane che hanno plasmato l’idea stessa di persona, di libertà, di dignità. Quelle radici che, pur negate, rimosse, attaccate, ancora sorreggono la nostra civiltà.
E fuori, intanto, la piazza aspetta. Aspettano i fedeli, i pellegrini, i turisti, gli scettici, i giornalisti, i curiosi.
Aspetta la televisione, aspetta internet, aspettano i potenti nei palazzi, tutti con il naso all’insù, verso quel comignolo antico, verso quel filo di fumo che dice più di mille parole.
Prima la fumata nera.
E un sospiro collettivo.
Non ancora.
Non adesso.
E si aspetta ancora.
Si aspetta insieme, in un tempo sospeso che solo Roma sa generare.
Un’attesa che è già preghiera, che è già speranza, che è già appartenenza a qualcosa di più grande.
Un popolo radunato non dalla forza, non dal denaro, non dall’intrattenimento, ma dal mistero stesso del mondo.
Mentre fuori il mondo si affanna a postare, commentare, filmare, là dentro si invoca lo Spirito.
“Veni Creator Spiritus.” Un canto che attraversa i secoli, che ha visto imperatori, tiranni, santi, peccatori.
Un canto che chiama il fuoco dall’alto, che chiede luce per chi deve scegliere. Che ci ricorda che prima del potere viene la responsabilità. Prima del comando, il servizio.
Il conclave è uno dei pochi momenti rimasti in cui l’uomo si prende sul serio. In cui l’autorità si fonda non sulla forza delle armi o sul denaro, ma su un mandato che viene da altrove. In cui ci si chiede: “Chi manderò?”
E mentre stavo completando queste righe, mentre ancora riflettevo sulle parole da scrivere, è arrivata la fumata bianca. Un boato che attraversa la piazza. Una gioia che contagia chiunque sia lì, chiunque guardi uno schermo. Un’esplosione che scioglie l’attesa.
E tutti col naso ancora all’insù, verso quel fumo leggero che sale come un messaggio.
Quando il Cardinale Protodiacono si affaccia e pronuncia: “Annuntio vobis gaudium magnum: Habemus Papam”, allora capisci che nulla è paragonabile a questo.
Che nessuna istituzione, nessun potere, nessuna organizzazione al mondo è capace di parlare così al cuore di milioni, di miliardi, con la sola forza di un nome.
Non è uno spettacolo.
Non è un reality.
Non è una messa in scena.
È la Storia che si rinnova.
È Roma Caput Mundi.
Non per conquista, ma per testimonianza.
Non per dominio, ma per permanenza.
Loro hanno i governi.
La Chiesa ha i secoli.
Loro hanno le agende.
La Chiesa custodisce il tempo.
Loro hanno il presente.
La Chiesa custodisce l’eternità.
In quel momento, che tu lo voglia o no, il mondo si ferma.
E guarda a Roma. Guarda al Vaticano.
Guarda al cuore stesso di quella strana e fragile avventura che chiamiamo Occidente.
Perché dentro quella fumata bianca c’è ancora, misteriosamente, la speranza che qualcuno preghi per noi. Che qualcuno porti il peso del mondo sulle spalle. Che qualcuno, dentro quella piccola città, sotto quella grande cupola, sia disposto a dire: “Eccomi.”
È questa la forza della Cattedra di Pietro. Non è un trono. Non è un seggio di comando.
È un luogo vuoto che attende di essere occupato da un uomo che accetta di non appartenersi più.
È il proseguimento di un gesto semplice e assoluto:
“Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa.”
Due millenni dopo, quel “Tu sei Pietro” risuona ancora. E ogni volta che un uomo viene eletto Papa,
è come se quel dialogo tra Gesù e l’apostolo tornasse a farsi presente nella storia.
Ma su quella pietra non si regge solo un’istituzione: si regge un messaggio.
Quello che Gesù ha lasciato come sintesi suprema: “Ama il prossimo tuo come te stesso.”
Tutto il resto, ogni potere, ogni liturgia, ogni parola, è solo custodia e difesa di questo comandamento.
E finché ci sarà una Cattedra di Pietro, finché ci sarà un uomo che dice sì, finché la fede si trasmetterà per nome, gesto e sacrificio, il mondo non sarà perduto.
Habemus Papam.
È il cardinal Robert Francis Prevost e da oggi il suo nome sarà Papa Leone XIV..