Sarò bacchettata per questa mia recensione ignorante di un artista così importante, bravo, conosciuto e riconosciuto .
Ma mi va di rischiare, come in tutto nella mia vita.
Ogni volta che, scorrendo le pagine di Facebook, mi capita sott’occhio un post di Egon Schiele, tutti i miei sensi si bloccano e vanno in una sorta di corto circuito emozionale.
Qualcosa di profondo e ancora sconosciuto in me viene toccato, come un settimo senso, una seconda ragione, un cuore di scorta, un sesso timido e nascosto.
Oltre a ispirarmi pezzi di prosa e poesia che ancora non credevo di avere in me, di poter produrre, mi provoca un “effetto specchio”.
Pur non assomigliando ai suoi personaggi rappresentati, maschi o femmine, grassi o esili, felici, sofferenti, morenti, nel piacere o nella malattia, in qualcosa o in tutto mi ci ritrovo sempre.
Egon Schiele riesce a rappresentarmi.
I suoi colori principali, il giallo di base come a voler ricordare la nostra caducità, la purulenta morte ma anche la luce vitale e solare della vita.
Il rosa, della carne umana, del sesso, della gentilezza, della fanciullezza pura che finisce ma che un po’ rimane sempre anche in contrasto con gli anni che passano.
Il rosso, del sangue che scorre per farci vivere, che scorre quando si muore. Il rosso vitale di tutto ciò che è desiderabile, amabile, forse immortale.
E quei tratti neri che sembrano tracciati per caso, a occhi chiusi a rinchiudere forme imperfette, troppo magre, troppo malate, troppo nude, provocanti, troppo perverse, troppo vive e mortali. Troppo comprensibili.
Egon Schiele, rappresentante e icona dell’espressionismo e dell’arte moderna e contemporanea mi stupisce, rapisce e mi ispira ogni volta e ogni volta mi indaga, quasi a essere un “arista psicologo” a tutti gli effetti.
Chiara Domeniconi